A forza di votare ci siamo stancati. Si vota per le europee, si vota per rinnovare il Parlamento nazionale, si vota per eleggere i Consigli regionali e i governatori, si vota per le Province, i Comuni e le circoscrizioni.
Ogni due per tre siamo in ballo con i certificati elettorali da recuperare in fondo a un cassetto. Ci rechiamo al seggio svogliati e dispieghiamo in cabina un lenzuolo con una miriade di simboli indecifrabili, tracciamo la classica croce su quello che ci fa meno schifo, e alla fine non cambia niente, nemmeno il rito dei commenti televisivi (ovviamente a caldo, a spoglio in corso) che vede la partecipazione dei soliti giornalisti, incluso chi scrive, impegnatissimi nel ripetere sempre le stesse baggianate ispirate al desiderio di barcamenarsi. Tutto ciò accade circa una volta l’anno. Ogni tornata viene spacciata per decisiva ai fini della stabilità politica. Si dice puntualmente: dalle urne uscirà un responso che consentirà di capire dove andremo a finire. E dove volete che si vada a finire se non a ramengo? Dopo quasi 70 anni di frequenti esercizi elettorali, l’unica certezza che abbiamo ricavato dal voto è la seguente: chiunque vinca non riuscirà a fare neanche un decimo di quanto sogna di realizzare. Già. Senza soldi non si va da nessuna parte.
I politici, buoni o cattivi che siano, sono bravissimi nella stesura dei programmi. Li senti parlare e pensi che abbiano bene in mente quali problemi debbano risolvere. Adesso va di moda – essendo dilagante la disoccupazione – urlare ai quattro venti che bisogna dare un posto di lavoro ai giovani, incentivare la produzione per uscire dalla crisi. Giusto. Gli scopi da raggiungere sono chiari, ma nessuno sa indicare come conseguirli. Con quali mezzi? Servirebbe abbassare le tasse per garantire ossigeno alle aziende. Ma non si può. Perché? Perché no. L’Europa non vuole, il debito pubblico è troppo alto, non è ammessa la riduzione della spesa. Quindi? Si tira a campare.
La sinistra si preoccupa della spartizione delle risorse, ma ignora come procurarsele. La destra invece si preoccupa di recuperarle ma non ne è capace. Tutti gli schieramenti – anche il Movimento 5 stelle – pretendono di avviare riforme, ma non sono all’altezza di riformare neppure se stessi. Per modificare la Costituzione è richiesta la maggioranza qualificata, due terzi delle assemblee. E chi li ha i due terzi? Siamo alla paralisi. Non è la democrazia ad averci nauseato, ma la macchinosità dell’apparato predisposto per (non) farla funzionare. Cosicché gli italiani hanno scoperto che il loro voto vale quanto il due di picche, è insufficiente a determinare i destini del Paese. Pertanto lo rifiutano.
Ieri e oggi il cosiddetto corpo elettorale è mobilitato per i ballottaggi in varie città, inclusa la capitale. Stando ai rilevamenti, l’affluenza è ulteriormente calata. La metà degli aventi diritto al suffragio vi ha rinunciato, lanciando un segnale preciso, inequivocabile, ai partiti: fate come vi pare, arrangiatevi, la vostra musica non ci interessa più. Un rigurgito di qualunquismo? Peggio. È maturata la sensazione che ormai i cittadini non siano padroni in casa propria e che la loro sorte dipenda dai capricci (o pregiudizi?) dell’Unione europea, da Angela Merkel, dalla Bce, dalla moneta unica. Che significato può avere votare per sindaci in bolletta, per governatori che non governano e per un Parlamento che non sarà una tomba vuota, ma non è nemmeno pieno di cervelloni? D’altronde se un leader come Beppe Grillo, dedito agli schiamazzi diurni, guida il primo partito italiano, un motivo ci sarà. Si avvertono sintomi di grave malessere democratico, di noia maggioritaria, di repulsione per il sistema marcio. I sentimenti prevalenti negli elettori sono la sfiducia e la ribellione. Occorre aggiungere che perfino il M5S ha rapidamente deluso chi lo aveva scelto. L’entusiasmo iniziale dei grillini si è deteriorato: lo si evince da come essi agiscono nel Palazzo. Sbandano. Litigano. Non danno più retta al guru che, preso dal panico, grida con foga ma senza costrutto, persuadendo anche i fedelissimi di essere un bluff, un arruffapopolo a corto di idee e privo di spessore politico.
Se anche il comico ha fallito, rimane il deserto. Il piatto piange e oggi, chiunque risulterà vincitore delle consultazioni, non potrà che lacrimare nella consapevolezza di avere raccolto una miseria di voti. I nuovi amministratori non avranno facoltà di fare meglio di quelli vecchi per una banale e tragica verità: non c’è trippa per gatti, anzi, non ci sono più neppure i gatti. Se manca il denaro, i buoni propositi si trasformano subito in velleità. Il popolo non capisce nulla, ma intuisce quasi tutto: in fondo al tunnel c’è sì una luce, ma è quella di un lumino cimiteriale.