Per uno schieramento politico purtroppo allenato all’autodafé e poi all’autoflagellazione è sempre pericoloso cantare vittoria. Ma stavolta, al contrario di quello che è successo tre mesi fa alle politiche, la sinistra le elezioni amministrative le ha vinte sul serio. Non basta a lenire il rammarico per la grande occasione perduta a febbraio, e neanche a sgombrare il campo dai problemi che restano, e che sono tanti. Ma la vittoria è netta, omogenea e inequivoca. Allo stesso modo in cui è netta, omogenea e inequivoca la sconfitta della destra e la scomparsa grillina. Rafforzando il risultato del primo turno di quindici giorni fa, anche ai ballottaggi la rivincita dei progressisti va al di là di ogni aspettativa. Soprattutto se si considera che avviene nel fuoco di una feroce guerra intestina. A questa prima considerazione preliminare se ne aggiungono altre due. Una, non meno importante, riguarda il rapporto tra i cittadini e il voto. Dopo queste amministrative, la dissoluzione finale della democrazia rappresentativa si è purtroppo compiuta. Il partito astensionista sfonda per la prima volta nella storia repubblicana il tetto del 50%.
L’onda della protesta, precipitata su Grillo al voto di febbraio e poi rifluita già al primo turno, non solo non si riaffaccia ma si dissolve definitivamente ai ballottaggi. L’anti-politica diventa strutturalmente a-politica. La “polis” non contesta la politica, ne fa direttamente a meno. Quasi una campana a morto non solo per i vecchi partiti, ma anche e soprattutto per i nuovi non-partiti. In attesa del test siciliano sull’esperimento Crocetta, si fatica a credere che Grillo si possa accontentare di aver vinto due ballottaggi ad Assemini e a Pomezia. Sic transit gloria mundi, se il guru Casaleggio consente il latinismo. La rivincita del centrosinistra dimostra che non tutto è perduto, in quel campo di Agramante che, a dispetto dell’inquietante spappolamento dei suoi gruppi dirigenti, conserva un confortante radicamento sul territorio, dal quale ripartire e sul quale ricostruire. Nei 92 comuni in cui si è votato tra primo e secondo turno, il centrosinistra se ne aggiudica 54, contro i 14 del centrodestra.
Per quanto Ignazio Marino abbia voluto “personalizzare” la sua campagna elettorale, il Pd espugna Roma dopo il quinquennio, nero in tutti i sensi, di Alemanno. Vince in tutti i 16 comuni capoluogo, strappandone 6 alla destra. Abbattendo a Treviso vent’anni di truculenta e xenofoba dominazione leghista, sbriciolando ad Imperia il torbido e granitico fortino di Scajola, conquistando al Nord città come Brescia e al centro-sud città come Viterbo e Iglesias. E per il resto confermando ovunque la sua supremazia, da Vicenza ad Avellino, da Pisa a Barletta. E perfino a Siena, dove si consuma lo scandalo rosso del Montepaschi, e in Sicilia, dove è in testa ovunque al primo turno e dove nel 2001 la Cdl celebrava il famoso cappotto del 61 a zero.
È un sorpasso in retromarcia, com’era già evidente dall’esito del primo turno di due settimane fa. È un “trionfo misero”, perché si produce in un Paese nel quale ormai vanno a votare poco più di quattro italiani su dieci. Ma per una forza politica che a febbraio ha buttato al vento un’occasione storica, è comunque una boccata d’ossigeno. «La nostra gente respira», dice giustamente Guglielmo Epifani. Ma se il Pd si accontenta di aver dato questo “segno di vita” per nascondere i suoi mali e rinviarne la cura, commette l’ennesimo suicidio. La frana del centrodestra è impressionante. E a spiegarla non basta solo il tradizionale deficit di classe dirigente che la coalizione forzaleghista ha sempre palesato, al centro come in periferia. Non basta solo il solito pretesto secondo cui il centrodestra «vince solo se in campo c’è Berlusconi ». L’impressione è che, su scala locale, un intero blocco sociale si stia sgretolando. Al Nord si sbriciola la base che ha cementato il patto populista tra Pdl e Lega, che ormai scompare ovunque e si dissolve nella Padania immaginata e mai realizzata. Al Centro-sud si sfarina l’impasto che ha ibridato il patto statalista tra berlusconismo e post- fascismo, che nella Capitale esplode e torna alla sua disperata e ostinata marginalità.
La sensazione è che, su scala nazionale, sia proprio il Pdl a pagare il prezzo più alto al governo delle Larghe Intese. È un paradosso assoluto, perché sembra smentire il teorema secondo il quale Berlusconi «ha in mano l’agenda del governo», e perché proprio la Grande Coalizione è stata la via di fuga imboccata dal Cavaliere fin dal giorno dopo le elezioni di febbraio, per restare seduto al tavolo del potere e per condizionare il corso dei suoi processi. Ora questo schema, che sembrava di sicura convenienza per il centrodestra, sembra saltare sotto i colpi della disaffezione elettorale dei presunti o sedicenti “moderati”.
Questa è la ragione principale che spinge a ridimensionare la portata stabilizzatrice di queste ammini-strative. Il governo Letta sembra più solido, e lo stesso presidente del Consiglio accredita questa chiave di lettura, parlando di un risultato elettorale che «rafforza il governo». Ma più che realismo, il suo sembra un esorcismo. Le Larghe Intese, anche se al momento sembrano l’unica formula esigibile in un sistema politico ingessato e l’unica forma possibile della governabilità, sono in realtà sempre più esposte alle spinte centrifughe di un centrodestra in crisi di identità e di un centrosinistra in crisi di leadership.
Lo strano “governo di necessità” è stretto in una tenaglia nella quale lo serrano due leve uguali e contrarie. La prima leva è appunto Berlusconi: all’incognita giudiziaria, tuttora la principale minaccia per l’esecutivo, si somma adesso un collasso elettorale che rafforza l’ala dura e pura del Pdl, il gruppo dei falchi e delle amazzoni convinti che la Grande Coalizione costi troppo cara al partito e non sia gradita affatto al suo elettorato. Finora lo Statista di Arcore ha resistito al canto di queste false sirene. Ma obiettivamente, dopo queste amministrative, la pressione crescerà. L’intervista di Alfano al Foglio, per la prima volta seriamente minacciosa verso Letta e francamente penosa verso “Repubblica”, è un segnale di forte tensione, che non si può sottovalutare.
La seconda leva è Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, pro-quota, ha vinto le amministrative, visto che i nuovi sindaci di Treviso, Brescia e Siena sono suoi fedelissimi. Ma è evidente che il tempo di Renzi non è quello di Letta. La lunga vita del premier accorcia quella del sindaco. Il patto della Torre, siglato a Firenze sabato scorso, è scritto sull’acqua, e non garantisce nulla se non una momentanea “non belligeranza” dettata solo dalla realpolitik. Anche per Renzi si avvicina il tempo delle scelte. Non a caso lui stesso evoca il drammatico precedente di Prodi e Veltroni del 2008, che consumarono lo strappo e chiusero l’avventura dell’Unione. L’altolà a Epifani sulla data del congresso fa il paio con quello di Alfano sulla “convinzione” dell’esecutivo. Per il governo Letta sono bombe a orologeria: aspettano solo una mano che faccia scattare il timer. La mano di Silvio, o quella di Matteo. Con tanti saluti alla “pacificazione”.