Maria Serena Natale | «The Childfree Life. Quando avere tutto significa non avere figli». Nell’estate del Royal Baby, della celeste Kate e delle super mamme alla Belen, una refrigerante brezza assolutoria viene dagli States dove il settimanale Time mette in copertina lei, lui e il sole di una vita «libera» dall’imperativo categorico della genitorialità come via maestra all’autorealizzazione. Salutare provocazione per un dibattito femminista che al di qua e al di là dell’Atlantico si è avvitato sulla difficoltà per le donne di «fare tutto» senza annullarsi nello sforzo di diventare se stesse.

E se quest’enfasi sul «fare tutto» servisse solo a coprire radicate gerarchie patriarcali che non ammettono la femminilità disgiunta dalla maternità?

Possiamo essere pienamente noi stesse anche mettendo da parte la responsabilità e la fatica della procreazione, scrive Lauren Sandler ricostruendo una realtà non ancora assorbita dalla cultura dominante e dal linguaggio ma che è già un orizzonte naturale per milioni di donne soddisfatte di una sessualità consapevole, armonicamente inserita in una vita non «childless» ma «childfree», non «senza figli» ma «libera».

Sono passati 64 anni dalla pubblicazione in Francia del Secondo sesso di Simone de Beauvoir, dalla denuncia senz’appello di un sistema culturale costruito nei millenni sulla definizione dell’essere donna a partire dalla funzione riproduttiva di un corpo che resta terreno di conquista per il potere maschile: la donna-ovaia, la donna-femmina negata dalla violenza pagana di figure mitologiche come Medea o sublimata nel culto cristiano di una scandalosa Vergine-Madre.

Nel solco di quell’analisi, in anni più recenti la filosofa Elisabeth Badinter ha messo in guardia dalla trappola del neofemminismo americano che afferma la specificità femminile attraverso la riappropriazione di una maternità così trasformata in nuova «schiavitù». Oggi proprio negli Stati Uniti, culla iconografica di massaie e torte di mele, sono sempre di più le trenta-quarantenni senza figli e senza rimpianti: malgrado una pressione sociale e una sovraesposizione mediatica della maternità senza precedenti, il tasso di nascite si mantiene il più basso della recente storia americana, tenendo conto anche della Grande Depressione del 1929. Si sta così formando un nuovo archetipo femminile, che consentirà di non dover più «giustificare» una scelta fin qui distorta da troppe stratificazioni di significato.

Per la maggior parte delle persone è naturale chiedere a una donna senza figli «come mai?».

Sul versante opposto, da quindici anni la demografa americana Stephanie Bohon ripete un esercizio con i suoi studenti: «Alzi la mano chi intende avere figli. La alzano tutti e, quando domando perché, non sanno cosa rispondere».

«Non definisco me stessa in base alle mie scelte riproduttive, sono irrilevanti», rincara la dose dalle colonne del britannico Times Hannah Betts; nel Regno Unito il numero di quarantenni senza figli è quasi raddoppiato dagli anni 90. Dopo decenni di elaborazione teorica e conquiste civili, vacilla il retropensiero che vede in queste donne delle eretiche sottratte al corso naturale delle cose, egoiste e colpevoli in un sistema sociale che pure continua a caricare soprattutto sulle loro spalle il peso della cura familiare — e non è detto che mettere al mondo un essere umano senza aver sciolto i nodi su se stessi sia meno egoista e irresponsabile che lavorare per trovare la propria strada, senza coinvolgere i figli nei propri disastri.

Donne che rivendicano il diritto a costruire il proprio posto nel mondo attraverso lo studio, il lavoro e l’amore nelle sue infinite declinazioni. Il vero lusso, dice Margherita Buy nel film di raro garbo dedicato al tema da Maria Sole Tognazzi, «Viaggio sola», è il piacere di una vita vera vissuta fino in fondo e piena di imperfezioni.