V.F | Da quando tutti invocano la politica del fare, trionfa quella del dire. I leader non si giudicano più dalle loro opere, che d’altronde non si vedono, ma dalle chiacchiere in cui sono impegnatissimi.
All’avanguardia nelle discussioni senza costrutto sono le sinistre, in particolare il Pd, ma non scherza nemmeno il Movimento 5 stelle cadenti (nell’indifferenza). Noi poveri tapini seguiamo i notiziari tv per ragioni professionali e ci tocca sorbire, dopo venti minuti di Papa Francesco che abbraccia bambini e accarezza handicappati in sedia a rotelle, un quarto d’ora di dichiarazioni progressiste (sinonimo di pallose). Guglielmo Epifani spiega che il segretario del partito può essere Tizio (cioè lui stesso) e il candidato premier può essere Caio, uno qualunque purché non gli rompa le scatole. Difficile dargli torto. Ed ecco inquadrata Rosy Bindi di nero vestita che dà l’impressione, nonostante non si capisca dove vada a parare, di non essere d’accordo con il reggente. Il reggente è lo stesso Epifani, naturalmente.
Poi appare sullo schermo Dario Franceschini che, da quando si è fatto crescere la barba, si ascolta più volentieri a prescindere da quello che dice, e in effetti non dice niente, ma non importa. Quindi è la volta di Pippo Civati, il quale, interrogato sulle regole che gli ex comunisti ambiscono a darsi allo scopo di affrontare con serenità il futuro, precisa anzitutto di non essere un «fighetto». Ci sforziamo di credergli sulla parola, però più lo guardiamo e più ci convinciamo che un po’ fighetto lo è davvero. Ci aspettiamo un suo giudizio sulle regole, e invece egli sorvola.
Finalmente si appalesa sul video Enrico Letta e pensiamo: adesso capiremo dove va il Pd. Lui viceversa pronuncia un paio di frasi di circostanza, e ne sappiamo quanto prima: il governo – annuncia il presidente del Consiglio con tono solenne – andrà avanti per la sua strada. Dove arriverà? Da nessuna parte, gira a vuoto per non scontentare la maggioranza composita ed eterogenea. In effetti, gli esecutivi sopravvissuti a lungo sono proprio quelli che hanno avuto l’accortezza di rimanere immobili. Allorché Mario Monti tentò di introdurre elementi di liberalismo nel nostro paralitico sistema, venne lui stesso colpito da paralisi e non si mosse più se non per sloggiare da Palazzo Chigi. La copertura televisiva sulle tribolazioni dei progressisti si conclude con due pezzi forti. Nel primo, Pier Luigi Bersani, discettando circa l’imminente sentenza della Cassazione riguardante l’imputato Silvio Berlusconi, asserisce che il partito si riserva di esaminare il verdetto, poi deciderà il da farsi. Vabbè. Nel secondo pezzo forte, Matteo Renzi, sorridente, si lascia sfuggire un concetto fondamentale: sono a disposizione del Paese, ma non mi presto a giochi di potere, non mi interessano.
Ottimo, il sindaco di Firenze. Tutti gli riconoscono di essere un abile comunicatore, anche noi. Ma quando avrà terminato di comunicare e magari dovrà prendere in mano il pallino, come si comporterà? Quali sono i suoi propositi e con quali risorse intende realizzarli? Mistero. In questa fase anche lui, pur con maggior brillantezza rispetto ad altri, si adegua al blateramento generale. Si barcamena. Attende. Che cosa? Che lo chiamino per disperazione alla guida del Pd? Che si creino le condizioni per mettere in piedi un partito nuovo in grado di raccattare consensi a sinistra, a destra e al centro? Che la corona gli cada in testa dal cielo? Che Berlusconi condannato gli consenta di occupare spazi per sostituire Letta al timone?
Per il momento prevalgono le ciance. Si tira la corda. Ci si avvita sui soliti discorsi astratti che allontanano, disgustandoli, i cittadini dalla politica. In soccorso dei politicanti disorientati, e incapaci di scelte concrete, oggi come ieri e come sempre, giungono le vacanze. La bottega parlamentare chiude per ferie. Rimane aperta la portineria del Palazzo, giusto per garantire al gossip di continuare a rovinarci la visione dei telegiornali.