Redazione | Non c’è un senso, ci si aggrappa a una consolazione: la strage ha risparmiato i bambini. In cinque lottano in ospedale per vivere. Per restare testimoni di una tragedia così grande ed emotivamente insostenibile. La loro angoscia meriterebbe una verità pacata. Il rischio più grave è quello di trovarne una di superficie, che punti alla colpa come una tigre alla preda.
E di colpe, in questa carneficina, ce n’è certamente più di una. C’è un autobus che perde pezzi e si trasforma in una scheggia impazzita. C’è un autista che azzarda una gimcana sulla corsia d’emergenza nel tentativo di fermarlo contro il guard-rail e di schivare le auto, tante a quell’ora, che lo precedono (Eroe? Temerario? Chi oserebbe giudicarlo, ci ha rimesso la vita).
C’è una barriera di cemento che protegge a destra la carreggiata dell’autostrada e che si stacca di netto dalla sua giuntura spalancando al pullman l’abisso. Nessuno dei tre fattori fa da solo trentotto morti, a memoria d’uomo il più grande disastro stradale nella storia del Paese. Insieme sì. Insieme fanno il pedaggio più ingiusto che si può pagare tornando a casa da una gita al santuario.
Ma non è di colpe, per doveroso che sia accertarle, che quei bambini hanno bisogno. Un giorno piuttosto qualcuno dovrà spiegare loro perché tra Napoli e Bari il 28 luglio del 2013 non c’era ancora una ferrovia diretta, ma solo una mulattiera chiamata autostrada, che saliva tra le montagne e d’inverno s’innevava, che aveva curve a gomito, gallerie mozzafiato e tornanti da vertigine come quello che ha inghiottito i loro compagni di viaggio. Una risposta sincera a questa domanda non darebbe un senso alla morte degli amici e parenti, ma almeno la parvenza di un sacrificio. Che è una mezza speranza.