C’è sempre qualcosa da confessare, perché l’amore deve trattenere tutto: luce e buio, inganni e promesse, e perdonare l’infedeltà. Ma non la mancanza di immaginazione
di Annalena Benini
Julie era bella, non più giovane, a corto di denaro e da sempre all’altezza di qualsiasi dramma, purché fosse sentimentale. Feriva e incassava, e se si fermava un istante vedeva tante Julie del passato, traditrici, tradite, dolci, feroci, abbandonate, consolate, sincere e bugiarde nello stesso istante, sempre vive: tutto avviene in forza dell’amore, scrisse Colette, che in “Julie de Carneilhan” (Adelphi) raccontò molto di sé e di quella forza oscura, ma accesa, che spinge di volta in volta verso la verità o verso il segreto, verso l’inganno o verso gli addii. Verso il momento in cui si decide di non perdonare oltre, o di non mentire più. L’amore, “miracolo da spaccarvi le ossa”, può resistere a molto, può tenere insieme luci e ombre, può rispettare le distanze e fare molte rinunce, o anche nascondersi in bagno a mandare messaggi a un’altra, “non posso vivere senza di te”, e poi tornare nella stanza illuminata, a tavola con tutti, felice, deciso a difendere i sotterfugi ma anche a dire, credendoci profondamente: non ci lasceremo mai. Se ci amiamo, saremo felici e infelici insieme. Vivremo un’autentica vita umana, un po’ folle e un po’ bugiarda, cercando di non essere ridicoli o cattivi, e non sempre riuscendoci. E se saremo costretti, confesseremo, come ne “La panne” di Friedrich Dürrenmatt (“Giovanotto, giovanotto, che cosa intende dire? Non vuole abbandonare finalmente la sua tattica sbagliata, continuiamo a fare gli innocenti? Bisogna confessare, che lo si voglia o no, c’è sempre qualcosa da confessare, dovrebbe cominciare a intuirlo!”). Confesseremo di avere flirtato, di essere stati ambigui, di avere detto “no” intendendo “sì”? Oppure, anche, chiuderemo Twitter, perché c’è un video porno che ci riguarda. Ci infileremo un casco integrale per portare i croissant alla ragazza che ci fa tremare anche solo mentre si sfiora i capelli, diventeremo euforici, impazienti, terrorizzati, troppo sicuri, pazzi e traditori, infliggeremo dolore insensato, chiederemo a un certo punto perdono, diremo: è anche colpa tua. Non rispondevo al telefono perché ero in una riunione molto importante, dirà lui, o lei, con gli occhi ancora lucidi, con addosso quelle ore rubate alla ragionevolezza, al rispetto, alla promessa di stare sempre dalla stessa parte. Oppure correremo a mostrare questo cuore che sanguina e che non può aspettare, sbatteremo in faccia tutta la verità, chiedendo un’impossibile comprensione: non ti ho mai tradito, ma adesso me ne vado perché c’è un’altra persona e non voglio ingannarti. E’ meglio, così? Non è tradimento, in fondo. Anche se un giorno lei gli aveva detto: per sempre. E lui aveva risposto: per sempre. Ed era vero, erano invincibili, sereni, al riparo da tutto il mondo fuori, anzi erano nel mondo insieme, certi di possedere qualcosa di importante e di definitivo. Ma adesso “non è più come prima”, come il titolo del saggio di Massimo Recalcati sul perdono nella vita amorosa (Raffaello Cortina), sulla fedeltà, la gelosia, la libertà, il narcisismo, e il pericolo che risiede in ogni amore. “Nessun amore è al riparo dal rischio della fine, perché ogni amore umano implica sempre l’esposizione assoluta all’Altro, che non esclude mai la possibilità del suo ritiro e della sua scomparsa”. L’esposizione assoluta all’Altro non riguarda soltanto chi viene tradito, però, non è solo la ferita di chi, fiducioso, aspettava il ritorno per cena e credeva alla storia della riunione improvvisa e delle preoccupazioni di lavoro e della trasferta di una notte a Parigi e di quella camicia nuova comprata in aeroporto. Riguarda tutti, anche chi ci ha ferito e adesso è corrotto, alterato, trasfigurato, si è rivelato diverso da quello che pensavamo, è diventato, scrive Recalcati, “un non essere”, che ha fatto infrangere per sempre la corsa, la promessa, dell’amore e non può essere perdonato. L’impossibilità del perdono è qualcosa di molto reale, che si nutre di vita pubblica e privata insieme, che tiene conto non solo del dolore privato, ma dell’umiliazione che arriva dal mondo fuori (gli altri bisbigliano, oppure urlano certezze e buon senso, come accadde a Anne Sinclair, la moglie di Strauss-Kahn, come accade adesso a Valérie Trierweiler, ex compagna del presidente della Repubblica francese: nessun perdono, nessuna redenzione, in nome della dignità, in nome di una promessa perduta; ed è anche questo a fare molto male: quell’assenza improvvisa di dignità, come se chi venga tradito se la strappasse di dosso per il solo fatto di esistere, di non avere capito prima o di non essere affatto certo di accettare la fine, di sbarrare il passo a qualcosa di diverso, un nuovo inizio perfino). L’incontro con l’Altro, la ricerca dell’altro, il pensiero dell’altro, anche solo l’immaginazione di un altro, o di cose indicibili, impresentabili, imperdonabili sognate con altri, le stesse davanti a cui scuotiamo la testa quando qualcuno le racconta o le subisce, perché riusciamo sempre a trovare qualche differenza con i nostri pensieri inconfessabili e ad assolverci allegramente: è questo il rischio assoluto che va evitato o fuggirlo sarebbe, in fondo, un enorme fallimento dell’immaginazione?
Chissà se ci si può fidare di qualcuno che non ha mai pensato più cose insieme, come in un ascensore che unisce fra loro molti piani: alcuni piani sono in bella mostra, lucidati, e altri invece un po’ nascosti, sono i piani in cui si finge di non scendere mai, quelli in cui usciamo da noi stessi, oppure ci entriamo furtivamente. Elsa Morante ha raccontato le telefonate notturne di Luchino Visconti in piena notte, mentre lei dormiva accanto ad Alberto Moravia e doveva rispondere al primo drin, Luchino le chiedeva imperioso gemiti e sospiri e lei obbediva rassegnata e fiera, timorosa che Alberto si svegliasse: sembra un incontro nella mente, e in fondo non fa nessuna differenza, lei ha pensato e svelato le parole di Visconti, lui che le sibilava all’orecchio e poi riattaccava senza una parola, le piaceva la follia di un tradimento telefonico, irrazionale, magari mai avvenuto. In “Stoner” di John Williams (romanzo americano del 1965, in Italia pubblicato un anno fa da Fazi), lui è un uomo silenzioso, onesto, dalla vita immobile, un matrimonio terribilmente angoscioso, una moglie di cui si è innamorato con uno sguardo, senza sapere nulla dell’amore, e che fa di tutto per distruggerlo e gli strappa e rovina anche il legame con la figlia (e lui, però, permette che accada con una rassegnazione desolata). Quando Stoner incontra Katherine Driscoll, una giovane insegnante che segue il suo seminario di letteratura nel Rinascimento e tradizione latina, non fantastica su di lei, non crede che la vita possa riservargli qualcosa, non pensa a intrecciare le dita con le sue, a baciarla sul collo, a guardarla dentro gli occhi per scoprire che sono viola. Lo pensa chi legge, e subito ci si infastidisce davanti alla serietà triste di William Stoner, quarantatré anni, alla sua totale assenza di fiducia nei movimenti dell’esistenza. Così, quando tutto accade fra loro, quello non è un tradimento, ma è la grande storia d’amore, la ricompensa (“Solo con un grande sforzo di volontà riusciva a ricordarsi che stava tradendo Edith”). E’ il suo mondo più vero, che dà un senso agli altri, quello accademico e quello coniugale, ma è il mondo segreto e impossibile di un uomo che si guarda intorno e scende le scale come un ladro prima di arrivare da lei: “Il tuo piccolo flirt”, gli dice un giorno la moglie (i cui pensieri e azioni segrete non vengono mai rivelate, ma le possiamo scoprire lo stesso), con una risatina indulgente, mostrandogli di sapere e rivelandogli anche la percezione esterna di qualcosa che per Stoner era tutto, ma non poteva diventare niente. Era solo un tradimento, insomma, un piccolo inganno, non il senso di una vita. La cosa sconvolgente è che anche Stoner e Katherine accettano che sia così, non pensano di andare via e basta, di scavalcare davanti a tutti il muro di quel “piccolo flirt”. “Entrambi diventeremmo qualcos’altro, qualcosa di diverso da noi – le dice Stoner – Non è la paura dello scandalo, o di quello che potremmo soffrire, tu e io. Non sono le difficoltà che dovremmo attraversare e nemmeno la perdita di ogni affetto. E’ la paura di distruggere noi stessi e tutto quello che facciamo”. Noi che leggiamo sappiamo che il loro era un vero amore, importante, e che non avrebbero mai dovuto rinunciarvi, e che quella rinuncia segna la fine di tutto. Ma la vita sommersa può esistere senza la vita salvata o invece ne esce sempre stravolta, perché fuori da quella dimensione di assurda purezza in cui il segreto e il tormento la confinavano è tutto diverso? Nel tradimento non esiste la vita quotidiana, e nemmeno l’imperfezione. Il nuovo incontro, anche solo immaginato e subito scacciato, è misterioso, intatto, è proprio quel pezzo di mondo che ci manca, un’altra prova della nostra esistenza. Avvolto in una grande quantità di eccezioni, spiegazioni anche fantasiose e piene di volontà (mi sentivo trascurata, sono così stanco, i bambini ci hanno resi diversi, mi lasciavi sempre sola, ero ubriaco, mi avevano appena licenziato, avevo vinto lo scudetto, ha fatto tutto lei, è stato lui, volevo solo farti ingelosire, comunque è stato orribile, non mi ricordo niente, solo una volta massimo due, non è come pensi, avevo paura che si suicidasse se dicevo no, adesso ho la conferma di quanto ti amo, l’ho fatto per vedere se te ne accorgevi, in realtà lui è omosessuale e grazie a me l’ha capito), giustificazioni che in fondo non hanno davvero a che fare con quel desiderio, con quel caos che stravolge gli equilibri e procura dolore, fatica di resistere, bugie ripetute, richieste di perdono oppure il tentativo di una nuova vita e il desiderio immediato di possedere la libertà di un altro, e di dirgli: però tu non tradirmi mai. “La ricerca compulsiva del nuovo non è libertà, è la nuova schiavitù”, ha scritto Recalcati, ma il desiderio che due ginocchia si sfiorino non può essere incasellato nei danni del consumismo, in un’esaltazione del narcisismo. Ci si guardava negli occhi anche prima di Twitter, anche prima di Ingmar Bergman, prima di Anna Karenina, prima che in “Affari di cuore” il padre di Meryl Streep tradita, incinta, disperata, le dicesse: “Non c’è niente che tu possa fare, vuoi la monogamia? Sposati un cigno”. Un cigno bianco, con il collo lungo, bellissimo e con le piume soffici, che non incrocerà mai lo sguardo di un altro, che ci regalerà la sua libertà. Che non disattiverà le notifiche di WhatsApp e non farà la doccia con il telefono in mano per essere sicuro che nessuno legga i messaggi. Che non registrerà rumori di Frecciarossa per fingere di essere in treno, non essendoci. Che non deluderà mai quel miscuglio di aspettative e promesse e abbagli, e non dirà: proviamo a essere infelici insieme, adesso, aspettando che torni la felicità, e perdoniamoci tutto, la tua distrazione e la mia debolezza, le gambe nude di lei che ballava quella sera alla festa e sorrideva troppo. Scrive Recalcati che per gli uomini è molto più difficile perdonare un tradimento, in loro l’umiliazione anche sociale brucia troppo, l’attaccamento all’Io è più forte, e quindi anche il rifiuto stizzito, la rabbia cieca. Una specie di castrazione, a essere lacaniani, la distruzione di un’identità. Ma se ti tradissi, preferiresti che ti tradissi per capriccio o perché mi innamoro di un’altra?, le chiese una sera lui, mentre si raccontavano di una coppia di conoscenti che si stava sbriciolando attraverso due vite parallele sempre più distanti. Lei si alzò in piedi di scatto, già furiosa, lo insultò per la domanda, gli fece altre mille domande e poi, quando si calmò: “E tu, che cosa preferiresti?”. Non si può mai rispondere, non si può immaginare, non si può nemmeno sapere se si potrebbe mai perdonare. Non si può guardare da fuori e capire il segreto di un matrimonio, e non lo si vede nemmeno se si è lì dentro. Ma l’unica risposta sensata, da tenere segreta a tutti gli psicanalisti, i filosofi, gli scrittori e le femministe, è che se negli occhi c’è ancora quell’amore, se non lo si è prosciugato con troppi errori, troppa poca fatica, allora forse non c’è molto altro che conti di più. Nemmeno la possibilità di una luce senza ombre