Antonio Preiti | Fra le cose insopportabili, la più insopportabile è la retorica sullo “sviluppo del turismo nel Mezzogiorno“. Se ne parla da anni, con le stesse parole, gli stessi problemi e nessuna soluzione. Oggi, salvo il caso della Puglia, i mali eterni del turismo meridionale sono, se possibile, ancora più eterni e irrisolti. Il turismo internazionale, ad esempio, nonostante i viaggi, eterni anch’essi, degli assessori nelle fiere turistiche, è un disastro compiuto.

Alcuni dati gridano vendetta: su 100 stranieri che visitano l’Italia, meno di 1 va in Calabria (0,9 % per chi ama l’esattezza), ancora meno in Molise (dove si deve scavare nelle statistiche con due cifre decimali, per trovare un segno di vita); in Basilicata si raggiunge lo 0,1 % e in Abruzzo lo 0,6 %. Mettendole insieme si arriva all’1,6 %, allora forse non serve fare promozione all’estero, tanto qualcuno, per sbaglio, ci arriva lo stesso.

Sommando le otto regioni meridionali, includendo Sicilia e Sardegna, si arriva al 13,2 %. Fa di più il solo Trentino Alto Adige, con il 14,2 %. Parlare di un fallimento della politica turistica nel Mezzogiorno, più che un’ipotesi è una constatazione.

Cos’è però l’insopportabile di questa vicenda? È che di questo fallimento nessuno sembra portarne la responsabilità, e neppure lo considera come un punto di partenza, amaro quanto si vuole, per cambiare strategia. Siamo subissati dai comunicati festanti, a conclusione di ogni fiera, che annunciano l’invasione straniera alle porte. Poi non accade nulla, in attesa della prossima fiera in capo al mondo, quando un altro comunicato annuncerà l’ennesima invasione.

Ma si può fare qualcosa per il sud, per rilanciare l’industria dell’ospitalità? Eh sì, rilanciare, perché c’è stato un tempo in cui il sud sembrava davvero aver trovato nel turismo una chiave dello sviluppo e la principale autostrada italiana si chiamava “autostrada del sole”.

Intanto ci sono alcuni grandi incanti-trappola da cui bisognerebbe uscire. Basta il sole? No, non basta il sole, perché se bastasse il sole, Malta sarebbe la capitale turistica del Mediterraneo. Il sole non basta. Per dire che non basta il clima, altrimenti in primavera avremmo gli alberghi del sud affollati, e invece sono chiusi, mentre affollati sono quelli del nord. Perciò non è questione di clima. C’è qualcosa che oscura il sole nel Mezzogiorno, e non è il clima.

Basta la cultura? No, che non basta, altrimenti Atene sarebbe la città turistica per eccellenza, ma non lo è. La cultura non basta, cioè non basta la testimonianza storica delle cose, serve se crea esperienza positiva, memorabile, altrimenti non serve. Nemmeno la cultura basta, allora.

Basta il paesaggio? A parte alcune brutture, le regioni meridionali hanno panorami spettacolari. Ma se fosse solo una questione di paesaggi o di qualità del mare, i Caraibi sarebbero la Grecia, ma non lo sono. Rimini starebbe nel fondo della classifica, ma non lo è. Il paesaggio non basta, da solo non basta.

Eppure quasi tutta la comunicazione turistica delle regioni mediterranee poggia su questi tre pilastri: da noi il clima è stupendo, da noi la cultura è formidabile, da noi i paesaggi sono mozzafiato. Un po’ è ovvio che sia così, perché nutrono l’immaginario turistico. Ma non rispondono alle domande cruciali che ogni viaggiatore si fa: cosa ci troverò? come mi troverò? Quanto costa? che esperienza avrò? come ci arrivo? cosa porterò a casa di incancellabile? Sono queste le domande vere che ognuno si fa, prima di scegliere dove andare.

In più l’esotico, alla cui evocazione s’ispira tanta comunicazione turistica, non è più di moda. Il turismo è consumo edonistico nel mondo dell’edonismo. È “consumo” di turismo, non è il viaggio che cambia la vita, non è domanda di esperienze sconvolgenti: è inscritto nella mappa dei consumi quotidiani (si compra una borsa, si cambia il telefono, si fa un viaggio). Dimenticate i Tropici di Lévi-Strauss.

Quando le cose sono così, quando cioè si tratta di un consumo ordinario, allora non vince l’attrazione esotica, ma la facilità d’acquisto, la raggiungibilità, il prezzo, insomma i “fattori freddi”. Così come si compra la borsa, allo stesso modo, si decide per il viaggio: quello più attraente, certo, ma anche più facile, più comodo, più accessibile.

Il vertice dell’insopportabilità lo si raggiunge con la declamazione del pezzo forte di ogni politica turistica meridionale: la destagionalizzazione. Si dice che i giorni di occupazione degli alberghi al sud siano pochi. Il che è vero, anzi è sempre più vero. Dopodiché si parla d’altro: si suggerisce che il clima è favorevole, perciò si potrebbe andare al mare in aprile e in ottobre; si suggerisce che ci sono tante testimonianze storiche da vedere, che aiuterebbero a utilizzare gli alberghi non solo d’estate; si suggerisce che ci sono paesaggi che meritano e non solo le spiagge. Nonostante la razionalità di questi argomenti, non succede nulla. E nonostante le prove innumerevoli che queste argomentazioni non facciano breccia (o almeno non da sole), si continua, di anno in anno, in un cattivo infinito, nello stesso rituale.

E invece bisognerebbe ragionare di mercati, d’industria dell’ospitalità, e non di astratte potenzialità. Com’è fatto il mercato turistico italiano? Ragioniamo di mercati piuttosto che di geografia, altrimenti non usciamo dal corto circuito. Il nostro Paese ha due grandi mercati, e una galassia di nicchie, alcune molto importanti. Il primo mercato è quello delle grandi vacanze estive, che coincidono con agosto. In questo caso da 12 a 14 milioni di nuclei di vacanza (famiglie in primis) acquistano soggiorni di due o tre settimane. Il secondo mercato è quello dei week end, che si spalma durante tutto l’anno (anche ad agosto, oramai). C’è poi il mercato delle “settimane bianche”, delle destinazioni termali, e delle altre nicchie.

Il Mezzogiorno accoglie quasi esclusivamente il mercato delle vacanze lunghe (fanno eccezione Capri, Taormina e poche altre). È evidente che per “destagionalizzare” si debba conquistare il mercato dei week end. Perché chi non trova posto ad agosto, per com’è organizzata la società italiana, non va a settembre. Cosa serve allora, per avere il mercato dei fine settimana? Fondamentalmente è una questione di offerta, di logistica, di prezzi, non è una questione di domanda, cioè di promozione turistica. Se da Bologna, con trenta euro (grazie ai soldi pubblici date alle compagnie low cost) si arriva a Ibiza, perché affrontare un volo di linea per Lamezia, per Catania, per Bari, spendendo dieci volte di più, con un’organizzazione del viaggio a proprio carico e rischio? Se l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno, come si fa ad affrontare un viaggio di due giorni, per due giorni di pernottamento?

Allora bisognerebbe avere un turismo da week end all’interno del sud (da Napoli in Sicilia, dalla Puglia in Calabria e così via), ma in questo caso i problemi logistici sono addirittura maggiori: perché il sistema dei trasposti è organizzato sulla traiettoria nord/sud, non su quella sud-sud. Se gran parte del mercato dei week end al sud è precluso, è inutile parlare di destagionalizzazione.

Lavorare sui “fattori freddi” però non interessa nessuno. Basti pensare come il “crollo” della Sardegna in questi anni sia dovuto al monopolio nei collegamenti, con l’esorbitante aumento dei prezzi dei traghetti. Politica turistica è politica dei trasporti, è logistica, è organizzazione e accessibilità delle destinazioni. Politica turistica non è stampare dépliant o fare pseudo conferenze stampa nelle più attraenti città del mondo.

L’altro grande problema è di carattere organizzativo. Mettere insieme le informazioni dei vari mezzi di trasporto, con l’ovvia incertezza se quelle informazioni siano valide, è considerato un problema del viaggiatore, non di chi organizza l’offerta. Già sull’informazione si potrebbe fare molto. Ma questo non “affascina” i decisori politici, che invece sono convinti del valore dell’esotico, di cui s’immaginano suoi “sacerdoti”, e mai come i custodi dell’organizzazione dell’offerta, lasciata al caso. Per non parlare poi dell’errore madornale delle “politiche regionali”, quando è noto che il turismo va per destinazioni, non per regioni. Il fatto che la competenza sia regionale non modifica i comportamenti dei turisti, che guardano sempre alla destinazione.

Ecco allora l’insopportabile gara a chi fa più retorica dell’altro, una gara da strapaese, a chi commuove di più (si fa per dire) i residenti non i mercati. Insopportabile è lo schema di gioco che porta sempre a uscire sconfitti, senza che nessuno si chieda se forse non sia il caso di cambiare. Insopportabile è che nessuno si senta responsabile dell’intera filiera dell’industria dell’ospitalità, che agisca in maniera meccanica, senza un pensiero sull’agire, senza chiedersi: ma non staremmo (forse) sbagliando? Possibile che al turismo non sia necessaria qualche competenza, qualche tecnica, qualche sapere? Se quel che conta è solo la produzione di esotismo locale, che bisogno c’è del mercato, della sua conoscenza?

A pensarci bene è questo, alla fine, che è insopportabile.