Marco Valle |Game over. Il gioco è finito. Le biglie si fermano e il pallottoliere fissa il risultato. Calano i numeri, freddi e precisi, e disegnano un panorama sussultante e disorganico.
Inutile ogni ricamo. Due ricchi sessantenni — un comico ligure e un guru della comunicazione della finanza transatlantica — hanno sconvolto il sistema e aperto una fase nuova della non esaltante storia repubblicana. Tra pochi giorni nell’aula di Montecitorio entrerà una compagine imbarazzante e imbarazzata: casalinghe di Voghera, sfigati assortiti, ufologi, No Tav e altre amenità ciabanti. Una follia? No. Dietro a quest’umanità vociante e impreparata a tutto vi è una regia attenta e una disciplina di ferro simile — molto simile — a quella che il defunto Ron Hubbard imponeva agli idioti che avevano aderito a Scientology. Con buona pace dei suoi adepti e dei suoi elettori, Cinque Stelle è un’operazione raffinata, preparata negli anni con cinismo e perizia, un disegno complesso in cui una spontaneità esibita e ostentata s’intreccia con calcoli attenti, ragionamenti lunghi, riferimenti potenti e — soprattutto — mire ambiziose quanto oscure.
Di certo la Premiata ditta Grillo & Casaleggio ha dissanguato la sinistra riformista (il PD perde quasi 4 milioni di voti) e la Lega Nord (metà dell’elettorato) e sventrato i neocomunisti e i giustizialisti. Ha retto meglio il centrodestra grazie a Berlusconi, l’unico che nei mesi precedenti ha compreso, studiandone accuratamente i linguaggi, il fenomeno Grillo. Piaccia o meno, lo spettacolo pirotecnico messo in scena dal Cav. — un geniale impasto di promesse mirabolanti e buon senso — si è dimostrato una sorta di anti grillismo grillino, un controveleno velenoso. La contromossa ha, almeno parzialmente, funzionato: il PdL, al netto delle ingenti perdite (6 milioni di voti), è riuscito a tamponare le falle sul fronte Cinque Stelle — quello che più preoccupava Berlusca —, recuperare una parte degli indecisi e dei delusi, massacrare i neo centristi montiani e, infine, rilanciare un leader e una coalizione dati per spacciati.
In questo quadro assolutamente dinamico e sconnesso — un tripolarismo e mezzo che condanna l’Italia all’ingovernabilità — la galassia delle destre rischia di sembrare ed essere un dato marginale. Irrilevante. A fronte del risultato forse controverso di Fratelli d’Italia — un piccolo miracolo o un effetto residuale? — ma reale e inoppugnabile, vi è la decimazione degli ex AN rimasti nel PdL, l’evaporazione (nel crudele dileggio della rete) di Futuro e Libertà, la bocciatura di Storace e la conferma dell’infruttuosità delle formazioni minori.
Nulla d’imprevisto. I risultati di febbraio 2013 sono l’effetto logico di una catena d’errori forgiatasi già all’indomani del congresso di Fiuggi e inanellatasi lungo un ventennio confortevole quanto fallimentare. Dal 1995, nonostante le affermazioni elettorali e uno spazio potenzialmente maggioritario, la destra politica ha iniziato a sbiadire la propria identità rinunciando a una progettualità forte. E ancora, per uno strano paradosso i successi hanno a lungo celato un processo involutivo — accelerato dall’affievolimento senile di Rauti e dalle morti premature di Tatarella e Marzio Tremaglia, tre “fabbri” di idee senza eredi — che ha rivelato tante fragilità e molti equivoci. In primis, i pesanti limiti culturali di un personale politico autoreferenziale, spesso subalterno a modelli e comportamenti distanti o/e inconciliabili con la sensibilità del blocco sociale di cui è espressione
Come ricordava su “Il Mulino” Ernesto Galli della Loggia, «evidente è stata l’incapacità, se non addirittura il disinteresse — abbastanza sorprendente dal momento che aveva in mano tutte le leve del potere —, che la destra ha dimostrato nell’affermare e organizzare una propria presenza culturale e intellettuale nella società italiana… riconfermando la propria subalternità, la destra non è riuscita neppure a proporre una sua originale narrazione circa il passato del Paese, né a influenzare in modo significativo il senso comune, non dico producendo ma tanto meno riuscendo a identificarsi con mode, miti, figure simboliche nuove e diverse rispetto a quelle correnti, tuttora fortemente dipendenti da un punto di vista di sinistra. È invece accaduto paradossalmente che proprio sotto il suo governo l’interdetto antifascista — che durante un breve intermezzo tra gli anni Ottanta e Novanta sembrava in via di superamento — si sia trovato, viceversa, rimesso in auge e rafforzato sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista, aprendo una nuova stagione di delegittimazione».
Il verdetto severissimo emesso nelle urne dal popolo della destra verso i suoi referenti politici del passato e del presente — spesso, purtroppo, identici — è la conseguenza di tutto ciò e altro ancora. Di fronte alla gravità dell’accaduto appare riduttivo, persino pleonastico (e troppo comodo) attribuire ogni colpa unicamente all’ex Leader Maximo e dimenticare o/e assolvere i plaudenti, i moschettieri del Capo, tutti quelli che strillavano “Fini, Fini il nuovo Mussolini”.
Non vi sono — nemmeno tra gli ultrà, gli iper critici, i super identitari, i puri e duri — degli innocenti. Nessuno è innocente. Pochi hanno compreso la portata storica dell’esperienza governativa e i mutamenti sociali in atto, pochissimi hanno esplorato i nuovi linguaggi e le potenzialità e i rischi della rete, la piattaforma sconfinata del 2.0. Nessuno ha forgiato risposte forti, proposto alternative serie, immaginato percorsi differenti e credibili.
Nessuno — ex missini, ex AN, ex PdL e tantomeno finiani, destristi, fiammisti, forzanovisti e compagnia cantante — è riuscito a parlare all’Italia. Quella vera, non quella rassicurante e ingannevole immaginata in Parlamento o disegnata nelle strategie (tutte fallite) tracciate da intellettuali accidiosi, deputati trombati, preti spretati ed emuli dell’onorevole Beppe Tritoni… Game over. Ancora una volta i dati elettorali, spiacevoli ma reali, hanno fissato i punti d’arrivo e di partenza.
Al di là della ricostruzione dolente delle fasi di un naufragio ormai conclamato rimane urgente recuperare un minimo di oggettività e di razionalità e aprire — sine ira ac studio — una riflessione a 360 gradi. Senza sconti per alcuno. Come ricordava Angelo Mellone su Barbadillo.it — una delle poche voci intelligenti e non conformiste sul web — «non è tempo delle mezze misure o dei pasticci tipo i “rassemblement” delle destre. Ovvero mettere assieme i cocci, i rimasugli del fallimento (sia politici che culturali: c’è qualche “intellettuale” che sulla coscienza porta il peso di grandi corresponsabilità), nella sciocca speranza che l’adunata dei reduci sia un’altra forma di male minore… Nel nuovo scenario, il primo problema è capire se c’è ancora spazio per una destra: ma se c’è, dev’essere una destra che questa nazione nella seconda repubblica ancora non ha conosciuto».
Un compito impegnativo, un dovere terribile e non invidiabile che spetta in prima battuta a Fratelli d’Italia. Un dato inevitabile. Nelle urne uno spezzone del popolo di destra ha dato mandato al piccolo battello di Meloni, La Russa e Crosetto. Un segnale di speranza e una fiducia (relativa) che sarebbe folle deludere.
Con molto scetticismo (inutile negarlo) poco più di un decimo degli elettori di Alleanza Nazionale hanno offerto ad un cartello elettorale improvvisato e generoso una possibilità. Tocca ai fondatori, agli eletti e ai militanti di Fratelli d’Italia dimostrare d’esserne degni.
Come? Non solo mantenendo i loro impegni elettorali — mai più con la sinistra, mai più un Monti bis — ma aprendo una fase nuova e radicalmente differente nella vicenda della destra italiana. Riprendendo le categorie tracciate da Antonio Polito nel suo saggio “In fondo a destra” vorremmo una forza piccola o possibilmente grande (meglio…) distante dal “partito di Bush” (la follia neoconservatrice) e dal “partito del Presidente” (Berlusconi), assolutamente differente dal “partito bling bling” (i denari) e, soprattutto dal “partito senza cultura”.
Una discontinuità potente per ritrovare la continuità con la nostra storia. La Destra in Italia nasce anti reazionaria e modernista. Onesta e severa. Rivoluzionaria e nazionale. Con Mussolini — un nome pesante con cui Fini ha sempre temuto di fare i conti — la Destra incontra la sinistra e il popolo e rilancia una sfida autoritaria e progressista nel segno della Nazione. Il MSI — fenomeno plurale quanto singolare — ha interpretato in modo confuso ma dignitoso linee già tracciate. Non fu cosa da poco.
Da qui l’importanza, l’urgenza di ripartire dalle analisi, da riflessioni, dalle idee. Da pensieri forti, da ragionamenti lunghi. Ricostruire e rilanciare significa abbandonare il piccolo cabotaggio sotto la luce rassicurante di fari tremolanti e affrontare il mare aperto, le onde, le tempeste. L’incognito. Ma i nocchieri vanno scelti con cura e responsabilità. Non è più il tempo di Nautilus condotti da capitani imbronciati e umorali, sopportati da equipaggi silenziosi e scettici nostromi. La rotta va tracciata assieme. Prima di finire tutti inghiotti dal Maelstrom.