pirellone-boccia-la-caccia-in-derogaLa stampa | La sconfitta perfetta si materializza verso le quattro del pomeriggio quando le proiezioni fanno capire che non c’è speranza per Umberto Ambrosoli. Dopo la delusione per la mancata vittoria alle politiche, per il centrosinistra arriva la resa in Lombardia. È la sconfitta perfetta perché non era facile perdere anche qui. D’accordo: la Lombardia è da almeno vent’anni un feudo del centrodestra; e Roberto Maroni è certamente un candidato forte. Ma non era ugualmente facile perdere. Non era facile perdere contro una coalizione che ha quasi dimezzato i voti nel giro di pochi anni (dal 2008 se si guardano le politiche, dal 2010 se si guarda alle regionali). E non era facile perdere dopo che la giunta uscente era stata spazzata via, con ignominia, dalla magistratura, alla fine di una serie di scandali senza precedenti. Scandali che non hanno lasciato praticamente superstiti nella vecchia maggioranza di centrodestra: del numero di inquisiti, ormai da un pezzo, s’è addirittura perso il conto.

 

Quante volte abbiamo visto  riconfermata una maggioranza inquisita per tangenti, ’ndrangheta, voto di scambio, allegre note spese? Di solito, la parte politica che raccoglie l’eredità di una giunta così sciagurata, si rassegna a passare il testimone. Così è successo, ad esempio, nel Lazio. Ma in Lombardia no. In Lombardia il centrosinistra non è riuscito a vincere nonostante l’ancora fresca memoria dei tuffi dallo yacht di Daccò. Nonostante il crollo della Lega. Nonostante la forte flessione del Pdl. Per questo è la sconfitta perfetta.

Come per i risultati delle politiche, anche per queste amministrative risalta l’incapacità del centrosinistra di entrare nel cuore del profondo Nord, quello dei capannoni e delle fabbrichette, degli artigiani e delle piccole imprese. Umberto Ambrosoli ha vinto infatti solo in due province, Milano e Mantova, che sono tradizionalmente più di sinistra che di destra. Ha vinto poi in cinque città: oltre alle stesse Milano e Mantova, Pavia Bergamo e Brescia. Ma in queste ultime tre province, così come naturalmente in tutte le rimanenti, il candidato del centrosinistra ha dovuto soccombere. C’è andato, in provincia: nel Varesotto, in Brianza, nelle valli bergamasche. Ma forse troppo poco. Ha incontrato le cosiddette «categorie produttive». Ma non tanto lui, quanto la coalizione che lo sostiene, di quelle «categorie» non parla la stessa lingua.

«Ambrosoli è una bravissima persona, se vincessi io lo vorrei assessore nella mia giunta», aveva detto Gabriele Albertini. Aggiungendo però subito dopo: «Ma la coalizione che lo sostiene è da paura». L’ex sindaco di Milano, che viene dal centrodestra, conosce bene la sua gente e sa che quel termine, «paura», è particolarmente appropriato. In Lombardia un’alleanza con Vendola e con la Cgil è ancora qualcosa che fa paura al mondo della piccola e media impresa.

 

È la sconfitta perfetta di una sinistra che si scopre improvvisamente vecchia, staccata dalla gente, incapace di cogliere i cambiamenti. Questa sinistra si era probabilmente illusa di rivivere una nuova stagione nella primavera del 2011, quando Pisapia aveva conquistato Milano e Nichi Vendola era venuto in piazza Duomo a celebrare la vittoria di un candidato di Sel. Fu la «rivoluzione arancione». Qualcuno pensò appunto a un passo nel futuro. Ma mai come ora si fa forte il sospetto che quella vittoria fu solo l’effetto del tragico momento che stava vivendo il centrodestra, con Berlusconi svillaneggiato in tutto il mondo per il caso Ruby, con il governo di Roma in agonia, con un sindaco uscente che non aveva mai legato con la città. Non si volle guardare con realismo a un dato reale, e cioè al fatto che Pisapia aveva vinto con gli stessi voti con cui cinque anni prima un altro candidato del centrosinistra, Bruno Ferrante, aveva straperso. Non ci si volle insomma rendere conto che la vittoria di Pisapia era arrivata non perché tirava un vento nuovo, ma perché gli elettori di centrodestra, che continuavano a restare la maggioranza, si erano presi un periodo sabbatico.

 

Nel tentativo di conquistare il Pirellone – o Palazzo Lombardia, come si chiama la nuova sede della giunta – il centrosinistra aveva di fatto rinunciato a primarie vere, e candidato un personaggio di valore e di indiscussa moralità. Nessuno, neppure a destra, può parlare male di Umberto Ambrosoli. E nessuno, neppure a destra, può pensare che egli sia un «comunista».

 

Ma come diceva Albertini, è la sua coalizione che non rassicura l’elettorato lombardo. È forse altamente simbolica l’immagine della presentazione del candidato Ambrosoli il 12 gennaio scorso al Teatro Dal Verme di Milano. Lui sul palco attorniato da Lella Costa, Roberto Vecchioni, Umberto Eco, Gad Lerner, Gherardo Colombo. Con tutto il rispetto, icone di una sinistra che probabilmente ha fatto il suo tempo. Quell’immagine del Dal Verme è tanto somigliante a quella di Nanni Moretti salito sul palco accanto a Bersani lo stesso giorno in cui, su un altro palco – in piazza Duomo a Milano – Beppe Grillo portava il suo tsunami. L’accostamento delle due immagini, quella di Moretti e quella di Grillo, è perfino impietosa nel far risaltare ciò che appare nuovo e ciò che appare uscito da un vecchio film.

«Non vorrei», aveva detto Matteo Renzi qualche mese fa, «che il giorno delle elezioni i leader del Pd dovessero ripetere quello che hanno detto a Parma, e cioè “non è che abbiamo perso, è che non abbiamo vinto”». È esattamente quello che s’è sentito ieri.